In Visita da Padre Romano Segalini PDF Stampa E-mail

 

di Barbara Sartori - 25 Febbraio 2013

 

“La vie est un combat”, “La vita è una battaglia”. Fatalismo africano. O il tentativo di esorcizzare con l’umorismo la durezza di un quotidiano in cui la povertà è il minore dei mali, se confrontato con la prepotenza dei soldati e l’assenza di un potere centrale in grado di garantire un minimo di sicurezza e di benessere per tutti.

Il nome della compagnia di autobus che fa la spola lungo i duecento chilometri di sterrata tra Aru, sulla frontiera con l’Uganda, e Watsa, nel distretto Haut-Huele della Provincia orientale della Repubblica Democratica del Congo, la dice lunga su cosa voglia dire essere cittadino di uno Stato che si ricorda dei suoi abitanti solo quando è ora di riscuotere le tasse. Sistema postale inesistente. Sanità e Scuola in condizioni precarie. Funzionari che vivono di rivalse, imponendo balzelli per ogni minima pratica burocratica. Posti di blocco con militari - a loro volta mal pagati e dunque perennemente assetati di denaro - che fanno il bello e il cattivo tempo; tanto, di fronte a un mitra, c’è poco da discutere.

In Congo dal 1976

È difficile per un europeo credere che sia possibile andare avanti così, in una condizione di endemica precarietà. “Eppure la gente vive, si muove”, ribatte con gli occhi pieni di rammarico suor Antoniette, congolese, che insieme a suor Thérèse della congregazione delle “Domenicane missionarie per l’Africa” dal 2005 lavora fianco a fianco dei comboniani alla missione di Dondi, otto chilometri più in là di Watsa, in diocesi di Isiro. Anima della missione - e primo sacerdote ad essere venuto a risiedere al villaggio - è padre Romano Segalini, classe 1943, rivergarese di nascita, podenzanese d’adozione. Conquistato dall’ideale di San Daniele Comboni che voleva “salvare l’Africa con gli africani”, è approdato nella regione orientale dell’allora Zaire nel marzo del 1976, quando ancora era dittatore Mobutu. A Mungbere ha costruito un ospedale divenuto un gioiello di efficienza nel caos della sanità congolese. Quindi è stato inviato a Rungu, Tadu e - tredici anni fa - Dondi. Ogni volta, ripartendo da zero.

A sostenerne i tanti progetti è il Centro missionario diocesano, con il quale padre Romano ha sempre mantenuto stretti rapporti e che per la prima volta, dal 26 dicembre al 6 gennaio, ha organizzato una visita alla missione, cui hanno partecipato - tra gli altri - il vicario generale don Giuseppe Illica e il vicedirettore del Centro missionario Roberto Porcari.

Ricevere visitatori fino a pochi anni fa era impensabile: senza sistema stradale, l’unico mezzo di spostamento consentito (dopo il già lungo viaggio aereo fino a Kampala e otto ore di bus per attraversare l’Uganda) era la moto. Non che la situazione oggi sia molto migliorata. Isiro, il centro della diocesi, ha un aereoporto ma resta isolata via terra. Da Aru (la prima città congolese che si incontra passata la frontiera dopo l’ugandese Arua) a Watsa,  complice gli interessi della multinazionale che gestisce l’estrazione dell’oro a Durba, è stata aperta una strada. Piena di polvere e buche, ma pur sempre una strada che - non nasconde padre Romano - per loro che vivono ancora senza elettricità e con una linea telefonica che funziona ad intermittenza, sembra già un passo avanti enorme.

La vita a Dondi

Eppure Dondi, grazie alla presenza dei missionari, ha conosciuto un suo sviluppo.

Nel Duemila il villaggio contava quattrocento abitanti ed era preceduto dalla cattiva fama di una popolazione dedita alle stregonerie. I primi sei mesi, padre Romano li ha passati da solo, adattandosi a vivere in un bugigattolo a fianco della chiesa, l’unica struttura pre-esistente. Passo dopo passo ha costruito le scuole, il dispensario, i locali che ospitano il Centro diocesano di formazione intitolato a Paolo VI, il primo Papa che, nel 1969, toccò il suolo africano visitando l’Uganda. Ma anche il Papa che con l’enciclica “Popolurum progressio” sullo sviluppo dei popoli istituì la commissione “Giustizia e pace”, nella consapevolezza che senza formazione non si costruisce alcun futuro.

Tredici anni dopo, gli abitanti di Dondi sono quattromila. Anche la comunità dei comboniani è cresciuta: insieme a padre Romano, padre Egidio Capitanio, padre Giacomo Biasotto e - fresco d’arrivo a dicembre 2012 - padre Gianni Nobili. La loro presenza ha dato impulso al villaggio e non solo sul piano spirituale. Padre Romano con il trattore e l’aiuto dei ragazzi del posto ha tracciato le stradine che dividono Dondi in “parcelles”, le porzioni che i capi villaggio concedono dietro pagamento di qualche capra per potervi costruire la propria abitazione, alias la capanna di fango e paglia, la pajote (dove ci si raduna per chiaccherare nelle ore più calde), il focolare per cucinare, un recinto a mo’ di servizi igienici. Tutto intorno si svolge la vita domestica (la media è di cinque figli), mentre capre e galline - e per i più fortunati un maiale - scorazzano in libertà. Dondi è zona rurale: mais, riso, sorgo, fagioli, manioca, arachidi. Si lavora di zappa; niente cavalli né animali da tiro. La terra è generosa; non tutti capiscono che le coltivazioni vanno seguite, si accontentano di quel che nasce spontaneamente.

Davanti alla missione si snoda la via principale, con alcuni tentativi di negozio e l’area del mercato che, due volte a settimana, al giovedì e alla domenica, attira commercianti dai dintorni. È un pullulare di donne che vendono pesce secco, olio di palma, frutta. I più all’avanguardia hanno banchi con esposta merce di ogni genere, comprese le creme per sbiancare il viso, un vezzo arrivato nel cuore dell’Africa.

“Voi siete il volto degli aiuti che sono arrivati fino qui. Grazie. Non dimenticatevi della nostra sofferenza, pregate per noi”. Sono occhi neri e profondi, di una tristezza che si fatica ad esprimere a parole, quelli dei giovani di Dondi che, salutandoci dopo la nostra visita alla missione, ci hanno lasciato in eredità il compito non solo di non dimenticare, ma di pregare.

L’innata apertura al Mistero che caratterizza l’indole dell’africano è la dote che padre Romano Segalini ha sempre constatato in quasi quarant’anni di vita missionaria. E davvero c’è da restare ammirati nel vedere la partecipazione di questa gente alla messa, compresa quella quotidiana delle sei del mattino, bambini inclusi. La liturgia è un melange di rito romano e rito zairese, con i tanti canti guidati dalla corale della parrocchia (a Dondi ce ne sono due, composte da giovani) e le danze liturgiche dei chierichetti e di alcune bambine vestite di bianco a sottolineare i momenti più importanti della messa. Il tutto senza creare confusione, ma secondo un rituale sapiente che aiuta al raccoglimento anche noi che non capiamo la lingua lingala con cui la popolazione si esprime e celebra. Vista dall’altare, è una folla che ondeggia battendo le mani e cantando al Signore.  Difficile non commuoversi. Così come intensi sono i racconti che padre Romano fa dell’esperienza della Missione popolare che hanno vissuto come parrocchia nei mesi scorsi e che riproporranno a breve, nell’Anno della fede, come occasione per approfondire il rapporto con il Signore. Davanti alla chiesa si costruirà un palco, dove per tre giorni ci si alternerà nella preghiera, con celebrazioni, Adorazione eucaristica, catechesi. Una forma di “nuova evangelizzazione” - osserva padre Segalini - che ha dato i suoi frutti. A colpirlo, soprattutto, la devozione nei confronti del Santissimo Sacramento di tanta gente che, in ginocchio, ha accompagnato in processione dalla missione alla chiesa l’ostia consacrata, passando poi ore in preghiera.

Tra le capanne, stringendo decine di mani

Passeggiare tra le capanne del villaggio insieme a padre Romano vuol dire prepararsi a stringere decine di mani e scambiare altrettanti sorrisi, tra i piccoli come tra gli anziani. “La gente ci vuole bene, sa che siamo qui per loro”, commenta il comboniano. Non è così con tutti gli abitanti di Dondi; qualche volta arrivano anche critiche ai missionari. L’uomo bianco ancora in questa parte di Africa è visto con una certa soggezione, talvolta con sospetto. Però chi più da vicino partecipa alla vita della parrocchia ha imparato a fidarsi dei padri, sa che a dominare nei loro interventi non è la logica del dollaro o dell’interesse, ma l’amore per un Dio che si è fatto uomo tra gli uomini, condividendo la loro fragilità. La generosità con cui portano la propria offerta all’altare (denaro, cesti di riso, galline o altri prodotti della terra) sono il segno della loro risconoscenza. I padri per sé non tengono nulla; li utilizzano per il dispensario, per pagare gli insegnanti (gli stipendi statali sono da fame, spesso le famiglie devono auto tassarsi), per i più bisognosi (anche alcuni pigmei si spingono a farsi curare fino qui), per i corsi di formazione del Centro. Ogni terza domenica del mese è dedicata ai poveri: le offerte sono riservate a loro, per lo più anziani rimasti soli. “Sensibilizziamo i gruppi all’apertura missionaria”, spiega padre Romano. Così succede che i chierichetti vengano mandati a riparare la capanna degli anziani che non hanno famiglia. O che una coppia con già sei o sette figli suoi si renda disponibile per accogliere degli orfanelli.

I progetti

Il mosaico con il volto di Paolo VI accoglie i visitatori all’ingresso della missione, con la sua celebre frase sul mondo che ha bisogno di testimoni, prima che di maestri.

È una piccola oasi di bellezza e di ordine, costruita valorizzando manodopera locale.  Le strutture in muratura sono realizzate con i mattoni dell’inconfondibile terra rossa, assemblati e cotti sotto l’attenta vigilanza di padre Romano. La falegnameria impiega alcuni uomini per costruire i banchi per la scuola e altri oggetti necessari alla vita quotidiana. Il refettorio è destinato agli ospiti che vengono a frequentare i corsi al Centro, in media 500-600 persone ogni anno, tra catechisti, gruppo delle mamme cattoliche, animatori del coro e della liturgia, referenti dei gruppi “Giustizia e pace” incaricati di insegnare alle persone quali sono i loro diritti in un Paese che si vanta di avere come motto “Justice, paix e travail” (giustizia, pace e lavoro).

Due ali del caseggiato sono riservate ad alloggio per una trentina di ragazzi, per lo più profughi dell’ultima ondata di violenze ad opera dei ribelli ugandesi dell’LRA, che alla missione vivono, studiano, provano a costruirsi un domani. Accanto alla chiesa, c’è il dispensario dedicato a Madre Teresa di Calcutta dove padre Romano sogna che un giorno possa arrivare - magari dall’Italia - un medico in pianta stabile per organizzare meglio il lavoro. E, dall’altro lato del terreno preso in concessione dai comboniani, il complesso scolastico con l’asilo - l’ultimo nato, grazie alle offerte raccolte con la mostra di Vittorio Polastri organizzata con il Centro missionario -, le scuole elementari e medie (oltre 800 gli studenti) e le due scuole superiori, con l’indirizzo in veterinaria e in segretariato-informatica.

Il miraggio dell’oro

Dare un futuro ai giovani per padre Romano è la priorità. Ha appena ottenuto il permesso di ampliare la Primaria: si supereranno i mille bambini. Il legname per i banchi è già pronto; si stanno cuocendo i mattoni per costuire il plesso che andrà a sostituire le classi ancora ospitate nelle capanne.

Da metà gennaio dovrebbe essere ripristinata la linea Internet, preziosa per gli studenti che frequentano il corso di informatica. La vicina miniera richiede nuove professionalità in grado di padroneggiare il computer: è una piccola finestra sul futuro che si apre, un’alternativa al nulla attuale. Sempre più giovani partono per setacciare i corsi d’acqua in cerca di qualche pagliuzza d’oro. Ma il miraggio del guadagno facile - dicono i missionari - ha come contropartita la diffusione di un atteggiamento di rifiuto della fatica, del lavoro nei campi come della pazienza dello studio.

Anche padre Romano combatte la sua battaglia, armato  solo della fede e di una infinita pazienza. Fa studiare i ragazzi, i migliori li manda ad Aru per specializzarsi. Quando tornano, spera siano pronti a dare il loro contributo per il bene comune. Qualche volta accade; altre manda giù delle delusioni. Ma non si dà per vinto. In Congo, padre Romano lo sa, “la vie est un combat”.